Il 15 di novembre 2021 entrerà in vigore, in Italia, l’istituto della “Composizione negoziata per la soluzione della crisi di impresa”. L’imprenditore la cui impresa si dovesse trovare in una condizione di squilibrio patrimoniale o economico finanziario tale da rendere probabile la crisi potrà cercare un accordo con i suoi creditori mediante l’assistenza di un esperto individuato dalla Camera di Commercio competente. Nel caso in cui la composizione non dovesse giungere a buon fine, tuttavia, l’imprenditore avrà il diritto di richiedere un concordato per cessione dei beni omologabile dal Tribunale anche senza il voto favorevole dei creditori.
La disciplina della composizione negoziata introdotta dalla L. 21 ottobre 2021 n. 147 apre, inevitabilmente, diversi interrogativi. Ci si interroga in particolare sul ruolo delle banche creditrici nella procedura di composizione. Quali i doveri e quali (anche) i poteri?
Il 15 di novembre, tra poco più di una settimana, entrerà in vigore, in Italia, l’istituto della “Composizione negoziata per la soluzione della crisi di impresa” previsto dalla L. 21 ottobre 2021 n. 147.
In breve, l’imprenditore che si dovesse trovare in una condizione di squilibrio patrimoniale o economico finanziario tale da rendere probabile la crisi (quando non addirittura l’insolvenza) della propria impresa, a norma del nuovo istituto potrà chiedere la nomina di un esperto indipendente, caratterizzato da certi requisiti di professionalità, per essere assistito in una trattativa con i propri creditori. Se l’esperto, convocato l’imprenditore, riterrà che sussistono concrete prospettive di risanamento, le parti si incontreranno ed inizierà un percorso che da qualcuno è stato assimilato ai procedimenti di mediazione (la sua durata, però, è brevissima. Se decorsi 180 giorni dall’accettazione della nomina dell’esperto le parti non individuano una soluzione adeguata, fatti salvi casi particolari l’esperto dichiarerà la chiusura del procedimento). Se viceversa verrà individuata una soluzione, questa sarà ratificata con la stipula di un contratto (anche con un solo creditore), una convenzione in moratoria ex art. 182 octies L.F., ovvero un accordo ex art. 67, 3 comma, L.F. (l’imprenditore potrà, altresì, domandare l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art.182 bis L.F. ovvero accedere ad una delle procedure previste dalla stessa legge).
Assai importante (ma su questo si ritornerà più avanti) se le trattative non dovessero giungere agli esiti sperati, entro sessanta giorni dal deposito della relazione dell’esperto l’imprenditore avrà il diritto di presentare un ricorso al Tribunale contenente una richiesta di concordato con cessione dei beni insieme ad un piano di liquidazione. Novità fondamentale, tale concordato può essere omologato dal Tribunale, acquisito il parere dell’esperto, anche indipendentemente dalla volontà dei creditori. L’omologa, in altre parole, è svincolata dal raggiungimento di specifiche maggioranze di voto. Se il Tribunale (con l’ausilio del menzionato esperto) lo reputa più conveniente di una liquidazione fallimentare, si può procedere con l’omologazione del concordato anche nel dissenso dei creditori.
Al netto di alcuni dubbi di portata almeno apparentemente minore (gli strumenti che garantiscono l’effettiva capacità dell’esperto o le qualifiche di chi li formerà) l’idea fondante del nuovo istituto, ad un primo esame, è tanto semplice quanto convincente. Le malattie, per essere curate, debbono essere diagnosticate tempestivamente ed altrettanto tempestivamente trattate. Ed è proprio il malato che si deve fare parte diligente recandosi dal proprio medico alle prime avvisaglie del male.
Vi è però, sottostante ad un principio tanto ovvio, una riflessione più complessa su cui è (almeno in questa fase) possibile riflettere, ed è che con la composizione negoziata della crisi il legislatore sembra mutare definitivamente l’angolo visuale con cui approcciare l’insolvenza (o la possibile insolvenza), passando dall’ottica del creditore a quella (assai più complessa) del mercato quando non – addirittura – dell’impresa.
Non sembra dubbio che nel 42 la legge fallimentare legasse strettamente insolvenza e responsabilità dell’imprenditore. L’idea era che se l’imprenditore si trovava in una situazione di crisi, ciò accadeva, nella maggioranza dei casi, per una sua incapacità imprenditoriale. Andava allontanato dal sistema produttivo perché non meritevole; e per questo non era strano che i soggetti agenti del suo percorso di allontanamento fossero proprio quei creditori che per primi si erano scontrati con le sue incapacità. Le procedure fallimentari prendevano di norma iniziativa dai creditori (o dal PM) perché l’imprenditore, per sua natura, avrebbe teso a minimizzare le proprie responsabilità.
Nel 2006, in un mondo divenuto globale, fluido, cangiante, rapidissimo nei suoi processi evolutivi (e involutivi), già alle porte della futura crisi del 2007 (che in massima parte di tali caratteristiche era figlia), ci si accorse che non sempre l’insolvenza, ma più in generale la crisi (e le parole contengono sempre in sé un significato profondo), derivavano da una colpa dell’imprenditore. Mentre ancora non si era metabolizzato lo shock della caduta delle Torri Gemelle, si prese a riflettere che anche l’imprenditore più accorto può essere ferocemente colpito da eventi che non solo non sono prevedibili, ma soprattutto si collocano integralmente al di fuori della sua portata operativa.
In questa particolare situazione ambientale, la riforma del diritto fallimentare mutò il proprio approccio alla crisi. Se l’insolvenza non era necessariamente frutto di una incapacità dell’imprenditore, non solo questi non andava necessariamente allontanato dal mercato, ma tutto al contrario era conveniente permettergli un ritorno controllato all’interno del mondo produttivo. Era giusto per lui (che poteva essere incolpevole), ma soprattutto era conveniente per il mercato, perché le iterazioni tra le aziende moderne sono tali che il crollo di anche poche di esse può comportare un effetto domino dalle conseguenze difficilmente controllabili. Nacquero, in questo senso, diversi strumenti nuovi, molti dei quali funzionali alla prosecuzione dell’attività di impresa nonostante la presenza di un originario stato di crisi, ad una fresh start, a permettere un diverso trattamento tra creditori strategici e non, ad assicurare un ritorno di leva o capitale.
Questo spostamento di visuale, passando cioè dall’utilità del singolo creditore a quello dell’intero sistema di mercato, sembra giungere a completa maturazione, oggi, proprio con la composizione negoziata della crisi di impresa.
Si è detto che se le parti non giungono ad una soluzione negoziata l’imprenditore può richiedere un concordato per cessione dei beni e che questo può essere omologato dal Tribunale anche senza il voto favorevole di alcuno dei creditori. Rileva dunque oggi non più ciò che ritiene conveniente il creditore, quanto piuttosto ciò che il Tribunale (in rappresentanza di un interesse della collettività) reputa conveniente per il sistema.
Tutto bene, dunque?
In realtà, come sempre quando si tratta di mutamenti di sistema (o di struttura), quando cioè il cambiamento non riguarda più gli strumenti con cui un istituto raggiunge i suoi scopi quanto piuttosto i suoi presupposti fondanti, vi è il rischio che la previsione, se non compresa integralmente, non porti agli effetti sperati.
Si intende riferirsi, in particolar modo, al ruolo rivestito dal sistema bancario nell’attuale sistema imprenditoriale (e dunque nell’intero sistema paese) ed al rischio di sua insufficiente partecipazione nel percorso di composizione controllata della crisi.
È ben noto che in Italia si è sempre avuta una tendenziale prudenza dei privati nel ricorrere all’indebitamento personale. Al contrario, tale pudicizia non si è sempre avuta in ambito imprenditoriale, dove il ricorso alla leva finanziaria è sempre stato utilizzato con estrema serenità quando non – addirittura – con sfrontatezza.
La cosa (forse strana se si pensa alla matrice familiare di molte delle nostre imprese), lascia intendere che quando l’esperto, valutata l’effettiva possibilità di sanare l’impresa, convocherà i creditori, si avranno due tipologie di partecipanti. Da un lato gli imprenditori ed i privati (ad esempio i fornitori); e dall’altra la (o più solitamente, le) banche. Gli imprenditori ed i privati si interesseranno tendenzialmente della compressione subita dal proprio credito (è, in effetti, difficile credere che possano interessarsi del futuro del debitore). Le banche, che hanno interessi collocabili in un percorso temporale di più lungo respiro, sarebbe invece naturale che si interessassero tanto del credito che del percorso di risanamento intrapreso dall’azienda debitrice.
Stranamente, nonostante che il D.L. 118/2021 preveda una loro partecipazione attiva ed informata, la convocazione dei creditori è però successiva all’elaborazione di una prima ipotesi di ristrutturazione elaborata – preliminarmente ma soprattutto pregiudizialmente – di concerto tra imprenditore ed esperto. L’esperto, come detto, convoca le parti solo se ritiene il risanamento possibile (e dunque quando ha già ipotizzato delle possibili soluzioni alla crisi). Quando le banche si presenteranno davanti a imprenditore ed esperto, è quindi facile immaginare uno iato solo faticosamente colmabile. Perché i primi avranno già valutato quali possano essere i modelli per arginare lo stato di crisi, mentre le banche saranno ancora vergini da possibili alternative.
L’orologio, nel frattempo, ticchetterà (i citati 180 giorni). Un tempo solo apparentemente lungo, perché (tra l’altro) decorrente non dalla convocazione dei creditori, ma dall’accettazione dell’esperto.
Ci sarà davvero tempo per immaginare soluzioni diverse a quelle inevitabilmente già prese in considerazione da imprenditore ed esperto? O non vi è il rischio che la stessa soluzione ultima del concordato senza maggioranze divenga uno strumento di coazione verso soluzioni potenzialmente immaginifiche?
Come si diceva agli inizi, elemento fondante del nuovo istituto è l’assoluta qualità degli esperti.
Se questi si dimostreranno davvero capaci, la composizione negoziata potrebbe rivelarsi uno strumento di straordinaria efficacia.
Se viceversa non lo fossero, se i processi immaginati per la loro formazione (attività non necessariamente nobile ma specialistica) risultassero inidonei, se i criteri per la loro nomina non fossero qualitativi ma solamente equalitari (per evitare equivoci sulle effettive ragioni di attribuzione), allora sarà forse bene che le banche elaborino dei percorsi per non venire (magari pure garbatamente) espropriati dalla gestione della crisi dei propri clienti imprenditori.
Una ristrutturazione prevede sempre una visione di medio lungo periodo che è propria, come detto, proprio del sistema bancario.
C’è quindi da augurarsi che proprio le banche decidano di divenire parti attive nei percorsi di ristrutturazione, non attendendo passivamente una convocazione da parte di esperto ed imprenditore ma valutando ex ante, con strumenti e tecnici dedicati, possibili soluzioni per i propri crediti (e qui mi allontano volontariamente sia dalle definizioni eurounitarie che nazionali) più tipicamente e tradizionalmente “a rischio”.
https://www.altalex.com/documents/news/2021/11/10/composizione-negoziata-crisi-impresa-ruolo-banche